sabato 11 febbraio 2012

Nouvelle Vague


Siamo nel 1959. Durante il dodicesimo Festival di Cannes viene presentato il primo lungometraggio di Truffaut intitolato I quattrocento colpi; il film si aggiudica il premio per la miglior regia ed ottiene un incredibile ed inaspettato successo di pubblico e consenso di critica. La Nuovelle Vague ora è conosciuta in tutto il mondo; poco importa se il film non ha vinto in quell' edizione del Festival, ciò che conta è che questa "Nuova Ondata" sia finalmente riuscita ad emergere e a raggiungere la notorietà.
Ma nonostante il '59 sia la data che ufficialmente - e forse anche un pò per comodità o per omaggio alla periodizzazione -  sancisce la nascita del nuovo "movimento", quest'ultimo in realtà muove i primi passi già qualche anno prima. Tra il '56 e il '58 vengono infatti girati una serie di cortometraggi per mano di alcuni registi che poco dopo ne diventaranno poi i principali esponenti: Truffaut con Une visite (1954), Les Mistons (1958) e Histoire d’eau (1958, girato insieme a Godard), Godard con Une femme coquette (1957), Tous le garçon s’appelent Patrick (1958) e Charlotte et son Jules (1958), Rohmer con La sonate à Kreutzer(1956) e Veronique et son cancre (1958), infine Rivette con Le coup du berger (1956). 
Tutti puesti personaggi nascono come critici dei Cahiers du cinéma, rivista fondata in Francia nel 1951 da Bazin e Doniol-Valcroze. Da subito la rivista si distingue per i toni forti e provocatori, spesso non convenzionali. Gli autori mostrano grande apprezzamento e ammirazione per registi del calibro di Wells, Hitchcock e Hawks, Rossellini e Bergman e solo per due registi francesi, ovvero Bresson e Renoir. Ed è proprio nel '54 che Truffaut scrive per questa testata "Une certaine tendance du cinéma français", articolo alquanto pungente indirizzato al cinema francese del tempo e ai suoi registi, profondamente ancorati ad un modo troppo vecchio e troppo ingessato di fare cinema, spesso anche troppo impersonale. Naturalmente l'articolo suscita notevole scalpore e non poche polemiche, e forse proprio per questo motivo viene spesso considerato una sorta di manifesto della stessa Nouvelle Vague.
In realtà, quest'ultima è ben lontana dall'essere un movimento omogeneo e compatto.  Infatti, pur nascendo tutti come critici della medesima rivista e pur condividendo alcuni principi fondamentali, nel corso degli anni i suoi principali esponenti percorrenanno strade anche molto diverse tra loro, sia sul piano tecnico-stilistico che su quello personale, tanto da poter affermare "non c'è da stupirsi che la Nouvelle Vague non si sia coagulata in un movimento compatto nello stile...le diverse direzioni prese negli anni Sessanta dai suoi esponenti induce semmai a vederla come una breve alleanza di temperamenti differenti." (Bordwell-Thompson, Storia del cinema e dei film).
Nonostante ciò, è tuttavia possibile trovare alcuni temi fondamentali che fungono da filo conduttore e che sono riscontrabili nella maggiorparte delle opere realzzate.
Innanzitutto possiamo affermare che questi registi sono generalmente per l'antiaccademismo, per il rifiuto di un cinema tendenzialmente commerciale,  per la ricerca e l'utilizzo di nuove tecniche e per la sperimentazione. E' proprio in questo periodo che si assiste al rifiuto del binomio cinema di qualità - budget elevato; i registi della Nouvelle Vague puntano infatti alla qualità con un badget incredibilmente più ridotto, spesso pari a circa la metà  di quello di un film tradizionale. In che modo ci riescono? Semplice: facendo un cinema quasi esclusivamente in bianco e nero,  girando in ambientazioni reali e  senza il sonoro (la cinepresa 35mm era dotata di un rumoroso motore che di fatto rendeva impossibile la presa diretta del suono e quindi  costringeva alla postsincronizzazione), con attori di scarsa fama (almeno nei primi anni) e una troupe composta dai soli membri necessari alla buona riuscita delle riprese.
In secondo luogo si assiste ad una consapevole virata verso un nuovo volto del regista, già anticipato nel '48 dal critico Alexandre Astruc; egli riteneva infatti che il cinema, ancora legato a tecniche e convenzioni troppo tradizionali, dovesse risultare più flessibile ma soprattutto più personale. E qui entra in gioco la figura del regista, che diventa una sorta di regista-scrittore, capace di fare della macchina da presa la sua personale penna, e di esprimersi attraverso essa in prima persona (proprio come fa uno scrittore per raccontare le proprie storie). Il cinema passa così "dall'essere fenomeno da baraccone e puro divertimento...al diventare gradualmente un linguaggio" (Alexandre Astruc, La camera-stylo).
E ancora: il cinema deve essere espressione del reale, quindi vi è un netto rifiuto verso tutte quelle strutture tecniche che rischiano di comprometterne la genuinità, prima fra tutte il montaggio (non a caso il piano sequenza rappresenta la principale tenica di ripresa di molte pellicole della Nouvelle Vague). La cinepresa deve dunque divenire un mezzo di rappresenazione della realtà così come ci appare, inalterata,  "filtrata" esclusivamente dal sentire personale del regista.
Ma torniamo alla produzione. Il primo esponenente della Nouvelle Vague che realizza un lungometraggio è Chabrol nel 1958 con Le beau Serge e Les Cousins, due pellicole che vengono distribuite soltanto l'anno successivo e che di fatto sanciscono la nascita di tale corrente (ottengono un buon consenso di critica, tanto che il secondo vince l' Orso d'oro al IX Festival internazionale del cinema di Berlino). Il '59 è l'anno della consacrazione, con I quattrocento colpi di Truffaut, Hiroshima mon amour di Resnais (regista che in realtà appartiene più propriamente al gruppo della "Rive gauche")  e Il segno del leone di  Rohmer (quest'ultimo esce però sugli schermi soltanto nel '62), mentre il '60 vede un altro grande regista  alle prese con il suo primo lungometraggio: Godard con il suo Fino all’ultimo respiro, forse il più innovativo tra quelli appena citati, di certo film di grande rottura sul piano stilistico con la tradizione francese. Non appartenente al gruppo dei Chaiers ma comunque assimibilabile ad esso per consonanza è Jacques Demy, che esordisce nel 1961 con Lola, donna di vita e a seguire, l'anno successivo,con La grande peccatrice.
Sfortunamtamente, già dopo qualche anno si assiste ad un drastico ridimensionamento del successo di pubblico e proprio questi grandi registi vanno incontro a numerosi flop, vuoi per qualche problema con la distribuzione - lo stesso Truffaut ammette “Non sono certo un perseguitato e non voglio parlare di complotto, ma diventa evidente che i film dei giovani, di coloro che prendono un po’ le distanze dalla norma, in questo momento si scontrano con uno sbarramento opposto dagli esercenti” - vuoi per un ritrovato e rafforzato cinema francese di tradizione. 
Tutto questo non impedirà però loro di continuare a fare film: "Ognuno continuerà nella sua attività, affinando, col tempo, la propria cifra stilistica e diventando, a sua volta, un classico." ( Marcello Perucca, Francois, Jean-Luc e (affettuosamente) gli altri). E così Truffaut realizza nel '62 Jules e Jim (1962), pellicola tratta dal romanzo omonimo di Henry Roché, nonchè una serie di film aventi per protagonista Antoine Doinel; del '62 è anche Questa è la mia vita di Godard, regista che sposerà poi un percorso non convenzionale e incredibilmente sperimentale che lo porterà persino al rifiuto del concetto di autore - simbolo di autoritarismo e ordine gerarchico - a favore di una sorta di cinema "collettivo"; Rhomer, dopo lo scarso successo del suo primo lungometraggio si dedica alla serie dei "Sei racconti morali", girati nell' arco di un decennio, mentre Rivette tenterà di catturare e riprodurre il tempo della vita con L'amore folle (1968) ma soprattutto con Out 1 (1971), pellicola di 12 ore e 40 minuti costituita da otto episodi di circa 90 minuti ciascuno, la cui incredibile durata permette al regista di "svolgere gradualmente un ritmo quotidiano dietro al quale incombono cospirazioni intricate e seminascoste." (Bordwell-Thompson, Storia del cinema e dei film). Infine Demy, che realizza Les parapluies de Cherbourg (1964) e Josephine la regazza dei miei sogni (1967).
In realtà, tra gli anni '50 e '60 si assiste ad un incredibile fermento nel mondo del cinema che porta alla nascita di una notevole quantità di nuove tendenze, di Nouvelle Vagues che si pongono in maniera critica e innovatrice rispetto al cinema tradizionale. La Nouvelle Vague francese dunque non è un' "apparizione solitaria"; è la prima, ma di certo non l'unica esperienza di "nuovo cinema". Alla fine degli anni '50 matura infatti il Free Cinema inglese, mentre durante gli anni '60 emergono il New american Cinema, il Cinema novo brasiliano, il Nuovo cinema tedesco e il cinema "del disgelo" in Unione Sovietica, quello giapponese e tanti altri ancora. In ogni caso, l'esperienza francese è forse la più importante, quella che più d'ogni altra lascia il segno, anticipa, si erge ad esempio per quelle che giungeranno successivamente: "La Nouvelle Vague è quindi principalmente un'esaltante avventura: estetica, tecnica, economica, critica...La Nouvelle Vague parigina dapprima anticipa e poi sostanzia il fenomeno ricchissimo delle Nouvelles Vagues nazionali, rimanendone tuttavia l'avventura più bella ed entusiasmante, autonoma e del tutto originale per specificità cinematografica, rivoluzionaria coscienza di stile, orizzonte di richiami intellettuali e precisi legami antitetici con il patrimonio di qualità del cinema francese"  (Gilodi, Nouvelle Vague - Il cinema, la vita -).

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