giovedì 10 novembre 2011

Rashomon


Titolo originale: Rashōmon
Anno: 1950
Durata: 88 minuti 
Regia: Akira Kurosawa

Ispirato a due racconti giapponesi di inizio Novecento firmati Akutagawa (Rashōmon e Nel bosco, rispettivamente del 1916 e 1922), Rashōmon segna la svolta nella carriera artistica di Kurosawa. Nel 1951 viene prima presentato al Festival di Venezia vincendo il Leone d'Oro, poi qualche mese più tardi ottiene l'Oscar come Miglior film straniero. 
Accusato dai produttori di essere troppo "giapponese" per poter piacere agli occidentali e dagli occidentali di essere troppo europeizzante, questo film ha il grande merito di aver portato in Europa il cinema giapponese, fino ad allora profondamente ignorato.
La storia è abbastanza semplice: per ripararsi da un temporale, tre individui - un taglialegna, un prete e un passante - si rifugiano sotto il portico del tempio di Rashō ed iniziano un lungo dibattito su un fatto (uccisione di un Samurai) accaduto qualche tempo prima. Ma il racconto di ciò che è accaduto non è poi così chiaro, tanto da avere ben quattro differenti versioni su come sarebbero andati realmente i fatti. Abbiamo così la prima versione del bandito (accusato di avere ucciso il samurai e violentato sua moglie), a cui segue una seconda della moglie del samurai, una terza dello spirito del samurai - che parla attraverso una maga - ed un'ultima, la quarta, del taglialegna. Tutte e quattro le versioni si discostano notevolmente tra loro: tutte sono potenzialmente valide e credibili, ma l'una smentisce l'altra. Risulta così impossibile accertare la verità. Il terribile fatto di per sè passa in secondo piano: quel che conta è riuscire ad interpretare il comportamento dei protagonisti e vedere come questi reagiscano dinnanzi al medesimo accaduto.
Ed è così che in questa pellicola viene affrontato e presentato al pubblico il grande tema del Relativismo, perfettamente riassunto nelle seguenti parole: "la conoscenza umana non può penetrare la realtà in sé, come assoluto, ma deve accontentarsi di afferrare, della realtà, solo aspetti parziali, particolari, contingenti e reciprocamente condizionati: essa riconosce inoltre l’azione condizionante del soggetto sui suoi oggetti di conoscenza, facendo proprio il detto di Protagora «l'uomo è misura di tutte le cose»" (Relativismo e fondamentalismo, Prandstraller).
Gli stessi personaggi, a seconda del narratore, possono essere giusti e colmi di rettitudine, oppure malvagi e privi di umanità, o ancora codardi e approfittatori. Per questo motivo allo spettatore non è dato sapere con certezza cosa sia realmente accaduto, chi sia colpevole e chi innocente, in quanto tutto viene mistificato dal soggetto che descrive i fatti. E' lo stesso Kurosawa a dichiarare che proprio l'egoismo è il peggior peccato dell'uomo e che "gli esseri umani sono incapaci di essere onesti con se stessi, non sanno parlare di se stessi senza abbellirsi. Questo bisogno di manipolare la verità per sentirsi migliori sopravvive persino dopo la morte: anche il fantasma del samurai ucciso non può rinunciare a mentire. L'egocentrismo è un difetto che ci portiamo dietro dalla nascita, è il più difficile da estirpare".
L'intera pellicola prende corpo in sole tre ambientazioni - il bosco, il porticato del tempio e il luogo in cui vengono raccolte le testimonianze (i personaggi parlano di fronte alla cinepresa, rivolti verso un virtuale gruppo di giudici ma soprattutto verso una reale giuria, ovvero gli stessi spettatori) - , sufficienti però a lasciar trasparire una sorta di legame profondo che intercorre tra Natura e racconto. E così, la foresta con i suoi giochi di luce-ombra ed il modificarsi del tempo a seconda dell' ambientazione (pioggia incessante sotto il portico, sole splendente nella foresta e un tempo non ben definito nelle scene in cui i protagonisti sono chiamati a testimoniare), offrono alla Natura stessa un ruolo di primissimo piano lungo tutto il corso del film.

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